A COLONO rito augurale per spettatore solo
A COLONO rito augurale per spettatore solo
DRAMMATURGIA, MUSICA E REGIA
Massimo Munaro
PRIMA RAPPRESENTAZIONE:
Rovigo, Spazio Lemming, 3 agosto 2001
Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere
Dopo la tetralogia sul mito e lo spettatore, iniziata con EDIPO e continuata con DIONISO E PENTEO, AMORE E PSICHE e ODISSEO, A COLONO si configura come una postilla, un piccolo cameo da aggiungere e da vivere come una sorta di appendice purificatrice. A COLONO si propone allo spettatore della tetralogia, e solo a lui è di fatto dedicato, come atto catartico e definitivamente liberatore da quella colpa che, in qualche misura, aveva caratterizzato, tematicamente, il percorso fino a qui messo in essere. Da EDIPO ad EDIPO, quindi.
Il mito ci racconta che EDIPO giunto cieco e brancolante al termine della sua vita, amorevolmente accompagnato dalle sue due figlie, finisce per arrivare in un luogo sacro nei pressi di Atene: Colono. Qui troverà la morte ed insieme la purificazione. Il suo destino di morte e di colpa, la sua caduta, si trasforma così in ascensione e in destino augurale. E’ la propria morte ad essere qui per lo spettatore/Edipo soggetto drammaturgico. Una morte che è però in qualche misura soltanto un passaggio di stato.
Di là da dove tutte le cose vengono, la esse dovranno tornare secondo l’ordine del tempo, secondo giustizia.
Così Anassimandro. Ma questo viaggio verso Colono, non ci riporta soltanto al punto esatto da cui cinque anni fa eravamo partiti – EDIPO e la sua cecità, la sua solitudine – ma anche a quella terra inesplorata, donde mai tornò alcun viaggiatore, arrivati alla quale tutti i viaggi finiscono e dalla quale, forse, altri ignoti viaggi cominciano. Ignoti – appunto. Così, spettatore Edipo, spettatore Penteo, spettatore Psiche, spettatore Odisseo, questo per noi è l’ultimo commiato, l’ultimo saluto: il congedo.
Questo tuffo nella tetralogia – e cioè nel mito della grecia antica e nella relazione diretta, sensoriale, drammaturgica con lo spettatore - è stato sopprattutto per noi un modo di ricercare la natura profonda del teatro, interrogarci sulla sua origine, sul suo senso. E proprio oggi, in cui tutto appare desacralizzato, tanto che ad essere mercificato non è soltanto il nostro lavoro ma persino ogni atto più intimo del nostro vivere, ciò che abbiamo trovato necessario per il teatro è il ritorno alla sua essenza di rito, la necessità di riformularsi come evento sacrale, di riprestinarsi come spazio dell’esperienza profonda, della vertigine emotiva, a partire dalle domande essenziali sulla nostra identità.
Per fare questo siamo giunti, senza quasi nemmeno volerlo, a cancellare alcune convenzioni e a riformularne della nuove. In questi lavori, per esempio, anch’io spettatore sempre affacciato al di qua della vita, al di qua della scena, sono costretto a entrare direttamente in campo, con tutto il mio corpo, con tutti i miei sensi assopiti. E senza essere obbligato a fare nulla sono indotto ad assumere un ruolo che già mi appartiene: perché Edipo, Penteo, Psiche, Odisseo, abitano direttamente la mia anima, come quella di ogni uomo, e incontrare i loro fantasmi, i loro segni sul mio corpo, ha significato allo stesso tempo abbracciare le generazioni di antenati che ci hanno preceduto e che fondano la mia identità individuale e collettiva. Il teatro resta oggi forse l’unico luogo possibile per questo incontro diretto.
Ci siamo chiesti spesso a che cosa, attraverso questi spettacoli, stavamo iniziando noi stessi e lo spettatore. Il mondo là fuori è un luogo che si fa sempre più degradato a pari di tanto teatro che ci capita di frequentare come spettatori e che spesso ci lascia fiaccati e delusi. Forse per questo abbiamo pensato di inventarci un luogo da dove iniziare, da dove partire.
C’è una dimensione inevitabilmente pubblica, e cioè politica, del fare teatro, ed una sua dimensione inevitabilmente esoterica. Nell’epoca in cui non più i teatri ma i centri commerciali sono diventati paradigma di ogni centro cittadino e del nostro stesso vivere civile, la dimensione esoterica del teatro può diventare non solo un rifugio dal mondo ma anche una concreta risposta nei termini di una diversa costruzione del mondo. A partire dalla sua specificità immanente (il teatro di fatto è realizzato sempre per pochi spettatori – condizione che coi nostri lavori abbiamo solo portato alle estreme conseguenze) qui è stata praticata la possibilità di ricostruire una comunità, una Polis, a partire proprio da una radicale diversità di senso e di approccio relazionale. E ci siamo ricordati che una polis si fonda innanzi tutto su ciascun cittadino partecipante. Il discrimine del teatro – la sua funzione pubblica – non si basa sulla quantità di spettatori che è in grado di coinvolgere, ma sulla qualità della relazione che esso è in grado di instaurare.
Il teatro in Grecia iniziò ad Eleusi come rito misterico consegnato soltanto ad una ristretta cerchia di iniziati. Vogliamo provare oggi a ripartire da qui. Ti chiediamo allora di mantenere segreto l’evento a cui hai partecipato, e che abbiamo dedicato unicamente a te. Di non rivelare a nessuno le cose a cui tu qui hai preso parte.
Rispetto al rumore del mondo una possibilità resta il silenzio.
Massimo Munaro