Una delle grandi questioni in cui si dibatte da sempre un uomo di teatro potrebbe essere riassunta con una domanda: com’è possibile tramandare un’esperienza?
A differenza di coloro che operano in altri campi dell’arte e di cui sopravvivono le opere, il teatro appare come un’arte che si scrive sull’acqua, consegnata com’è, inevitabilmente, all’impermanenza del presente. Di Sofocle, Shakespeare, Moliere, che furono anche grandi poeti, ci rimangono in fondo soltanto delle parole, perché in realtà nulla ci rimane del loro teatro. Anche se in tempi di restaurazione come questi sembrerà un’affermazione eretica, la drammaturgia non consiste in un testo scritto, ma si realizza piuttosto in quel sottile alchemico equilibrio fra le diverse componenti dell’arte scenica e di cui le parole – queste maledette e morte parole – non sono che un elemento, spesso nemmeno quello predominante.
Un uomo di teatro è inevitabilmente consegnato al qui e ora dell’evento: la forma in cui consiste l’opera non può vivere se non nell’accadere irripetibile della scena. Possiamo vedere lo stesso film di Ingmar Bergman anche mille volte ed entrare così in contatto diretto e vivo – lui che è morto – con la sua opera. Ma della sua opera teatrale non rimane che una memoria leggendaria. Nata dal mito, ecco che l’opera teatrale sembra così riconsegnarsi, a sua volta, al mito.
Anche Artaud, Appia, Stanislavskij, Grotowski, Kantor ci hanno lasciato delle parole, ma il profumo delle loro realizzazioni teatrali si è perduto per sempre, o al massimo si è consegnato al ricordo, all’immaginazione e alle speculazioni dei loro successori. Com’è stata tramandata, o più spesso tradita, la loro straordinaria esperienza? Quali gesti, quali segni ci hanno lasciato in eredità? Dove rintracciare oggi, in un mondo teatrale sempre più museificato e mercificato, il senso di una continuità vitale, di un passaggio del testimone? Già perché eccolo qui il teatro: spaccato fra compagnie di prosa in gara nella riproposizione dell’uguale e del medesimo, popolato da comici televisivi (finalmente possiamo incontrare dal vivo! per una sera il divetto, il tronista, la velina), fra i mille narratori (teatro di narrazione – mai ossimero fu più assurdo!), e ai bordi – viva l’off per sempre off! – i giovani all’ultima anzi meglio ultimissima moda (cosa importa di cosa ne sarà di loro dopo, tanto fra un anno ci saranno i nuovi, anzi i nuovi nuovissimi del momento!).
Come si può parlare di eredità in una simile centrifuga, in questo campo culturale e sociale sempre più desertificato?
Molti anni fa un importante festival canadese, e poi anche un teatro svizzero, mi proposero, sull’onda del successo italiano, di realizzare EDIPO con un gruppo di attori del luogo, svincolando perciò la produzione dell’opera dal diretto coinvolgimento del Lemming. Io rifiutai. Mi sembrava sbagliato realizzare un’opera così delicata con un gruppo di attori che non sposassero a monte il pensiero teatrale che il lavoro implicava. Giudicavo impossibile preparare un gruppo di attori nel breve tempo che, inevitabilmente, i due grandi produttori, potevano offrirmi. Nulla di più terrificante, come spesso capita, di vedere attori del tutto impreparati ad affrontare la scena, non realmente consapevoli e presenti a quello che fanno. Questo è un errore, qualunque cosa si sia detta o scritta sul mio lavoro, che so di avere sempre cercato di evitare.
Oggi sento, però, la necessità di accettare una scommessa impossibile: preparare in tre settimane di lavoro, trenta giovani attori e realizzare con loro, guidati da attori del Lemming, l’EDIPO contemporaneamente e per molti giorni in cinque diversi luoghi di una stessa città. La prima tappa di questo progetto si svolgerà a Venezia fra febbraio e maggio 2011. Il progetto si chiama, non a caso, L’EDIPO DEI MILLE e risponde ad una doppia esigenza. Da una parte sento il bisogno di verificare se sia davvero possibile, in qualche modo, trasmettere a degli allievi, futuri attori forse, l’esperienza di EDIPO. Dopo che lo spettacolo in tutti questi anni è sempre rimasto nel repertorio della compagnia come straordinaria palestra di formazione per la crescita professionale e umana degli attori del gruppo, oggi sento venuto il momento di lasciare che quest’opera viva anche di una vita autonoma. Mi affascina soprattutto la possibilità di realizzare una pedagogia in grado di trascinare nel rischio della prassi un nutrito gruppo di allievi. Come si può, del resto, divenire attori se non mettendosi alla prova? Tanto più che qui non si affronta l’improbabile saggetto di fine corso, ma una drammaturgia compiuta ed esemplare. E’ un’impresa troppo arrischiata? Può darsi. Resta però che il primo insegnamento per un attore è quello di imparare ad esporsi al rischio.
Esiste poi un’altra ragione che sta alla base del progetto e che mi appare oggi ancora più cogente: quella politica. Si sa che la storia della spedizione dei Mille, a cui il titolo del progetto allude, si confonde col mito e la leggenda. Appare in effetti incredibile che un gruppo sparuto di ragazzi giovanissimi, volontari e male armati, abbia potuto sbaragliare un agguerrito esercito borbonico e contribuire in modo decisivo alla nascita del nostro Paese. Quello che ancora di potentemente simbolico riverbera in noi di questa storia esemplare, è l’insegnamento che a volte anche l’azione di pochi uomini è in grado di produrre grandi trasformazioni. Per noi si tratta, una volta di più, di dimostrare che è possibile trasformare ciò che è apparentemente utopico in un atto concreto. Che si può, anche a dispetto di un sistema teatrale più che mai immobile e reazionario, affermare una differenza che non è soltanto ideale ma concreta e praticata. Nulla, in effetti, è più apparentemente utopico e paradossale, anche da un punto di vista produttivo, di un lavoro come EDIPO. Un solo spettatore laddove nella società dei consumi la comunicazione spettacolare si rivolge esclusivamente ad una massa indifferenziata. La richiesta di una partecipazione attiva e personale, là dove tutto è sempre comunque mediato, e ci mantiene rigorosamente passivi e distanti. E soprattutto l’esplosione sensoriale ed emotiva, quella profonda intimità fra estranei, quello strano senso di fratellanza, che questo lavoro induce in ciascun partecipante, a dispetto del solitario vouyerismo impotente a cui si è quotidianamente consegnati. In questa Italia divisa e devastata, ridotta a macerie, narcotizzata e ferita dal chiacchiericcio e dallo strepito televisivo, anche questo piccolo spettacolo per un solo spettatore, e che per altro finirà per propagarsi nell’intero spazio urbano di una città, può contribuire in modo attivo a qualche piccola ma reale trasformazione.
Certo, come direbbero i Greci, la nostra libertà soccomberà sempre alla supremazia dell’Ananke. Ma d’altronde, misurare sul proprio corpo il dissidio profondo fra libertà e destino, quel dissidio e quel senso di rivolta che in altro modo accomuna Edipo al giovane garibaldino della spedizione dei Mille, è ciò che rende eroica la condizione umana di ciascuno di noi.
Massimo Munaro
Una delle grandi questioni in cui si dibatte da sempre un uomo di teatro potrebbe essere riassunta con una domanda: com’è possibile tramandare un’esperienza?
A differenza di coloro che operano in altri campi dell’arte e di cui sopravvivono le opere, il teatro appare come un’arte che si scrive sull’acqua, consegnata com’è, inevitabilmente, all’impermanenza del presente. Di Sofocle, Shakespeare, Moliere, che furono anche grandi poeti, ci rimangono in fondo soltanto delle parole, perché in realtà nulla ci rimane del loro teatro. Anche se in tempi di restaurazione come questi sembrerà un’affermazione eretica, la drammaturgia non consiste in un testo scritto, ma si realizza piuttosto in quel sottile alchemico equilibrio fra le diverse componenti dell’arte scenica e di cui le parole – queste maledette e morte parole – non sono che un elemento, spesso nemmeno quello predominante.
Un uomo di teatro è inevitabilmente consegnato al qui e ora dell’evento: la forma in cui consiste l’opera non può vivere se non nell’accadere irripetibile della scena. Possiamo vedere lo stesso film di Ingmar Bergman anche mille volte ed entrare così in contatto diretto e vivo – lui che è morto – con la sua opera. Ma della sua opera teatrale non rimane che una memoria leggendaria. Nata dal mito, ecco che l’opera teatrale sembra così riconsegnarsi, a sua volta, al mito.
Anche Artaud, Appia, Stanislavskij, Grotowski, Kantor ci hanno lasciato delle parole, ma il profumo delle loro realizzazioni teatrali si è perduto per sempre, o al massimo si è consegnato al ricordo, all’immaginazione e alle speculazioni dei loro successori. Com’è stata tramandata, o più spesso tradita, la loro straordinaria esperienza? Quali gesti, quali segni ci hanno lasciato in eredità? Dove rintracciare oggi, in un mondo teatrale sempre più museificato e mercificato, il senso di una continuità vitale, di un passaggio del testimone? Già perché eccolo qui il teatro: spaccato fra compagnie di prosa in gara nella riproposizione dell’uguale e del medesimo, popolato da comici televisivi (finalmente possiamo incontrare dal vivo! per una sera il divetto, il tronista, la velina), fra i mille narratori (teatro di narrazione – mai ossimero fu più assurdo!), e ai bordi – viva l’off per sempre off! – i giovani all’ultima anzi meglio ultimissima moda (cosa importa di cosa ne sarà di loro dopo, tanto fra un anno ci saranno i nuovi, anzi i nuovi nuovissimi del momento!).
Come si può parlare di eredità in una simile centrifuga, in questo campo culturale e sociale sempre più desertificato?
Molti anni fa un importante festival canadese, e poi anche un teatro svizzero, mi proposero, sull’onda del successo italiano, di realizzare EDIPO con un gruppo di attori del luogo, svincolando perciò la produzione dell’opera dal diretto coinvolgimento del Lemming. Io rifiutai. Mi sembrava sbagliato realizzare un’opera così delicata con un gruppo di attori che non sposassero a monte il pensiero teatrale che il lavoro implicava. Giudicavo impossibile preparare un gruppo di attori nel breve tempo che, inevitabilmente, i due grandi produttori, potevano offrirmi. Nulla di più terrificante, come spesso capita, di vedere attori del tutto impreparati ad affrontare la scena, non realmente consapevoli e presenti a quello che fanno. Questo è un errore, qualunque cosa si sia detta o scritta sul mio lavoro, che so di avere sempre cercato di evitare.